Cos'è la morte?
Con questo termine usiamo indicare lo stato in cui versa un individuo, prima vivente, che ha cessato di esistere: dopo la morte rimane immoto, non potrà più respirare né muoversi né fare qualsiasi altra attività che aveva precedentemente svolto durante la vita.
"La morte è l'obliterazione dell'Io cosciente che si infutura nell'archetipo prototipo dell'antropomorfismo universale"
Durante il corso della storia, con la conseguente evoluzione
dell’uomo è inevitabilmente mutata anche la concezione di “morte” dell’individuo,
ma soprattutto il modo attraverso il quale l’essere umano si è rapportato ad
essa.
Dal primordiale concetto di morte intesa come “passaggio”
dal mondo dei viventi a quello dei defunti, caratterizzata da una profonda
ritualità e solennità, si giunge al concetto di morte “moderna” tipica dell’epoca
medioevale.
Con il progressivo aumento della popolazione e il conseguente
sviluppo delle città, vengono ad instaurarsi nel quotidiano una molteplicità di
fattori che portano la morte a diventare un fatto quasi scontato: conflitti, malattie,
povertà e quasi totale inesistenza di arti mediche funzionali pongono
costantemente l’individuo a contatto con la morte, incombendo su di lui come
una spada di Damocle. Non sono rare infatti le rappresentazioni artistiche (la
danza dei morti) di questo profondo terrore che l’uomo medievale nutriva verso
di essa, così come verso la presunta apocalisse dell’anno mille, proprio a
causa di questa consapevolezza di poter cessare di esistere da un momento all’altro.
Con la fine del XV secolo, la morte viene dipinta come una
forza della natura, un momento istantaneo nel quale l’uomo esaurisce il suo
tempo terreno ed incontra l’eternità. Ed è proprio il tempo il particolare
fondamentale: l’uomo ha un periodo nel quale può vivere e compiere delle
azioni; al termine di questo egli muore e a seconda delle azioni compiute la
sua anima verrà portata all’inferno, sottoposta ad uno spaventoso castigo, o in
paradiso. La fine del tempo coincide con la fine della vita terrena: la morte
diventa non più la meta, bensì la fine della vita. Vengono scritti molti testi, primo fra tutti L’ars Moriendi, i quali, così come il
Galateo insegnava a comportarsi educatamente e civilmente, sono vere e proprie
guide per morire bene ed essere ricordati per questa singolare dignità e
signorilità nel momento della dipartita.
È però nel XVI che si
verifica una svolta radicale: con la nascita della figura del medico di città,
la gente ricca comincerà ad impiegare il proprio denaro per tenere lontana il
più possibile una morte che, senza cure opportune, sarebbe sopraggiunta
inesorabile.
Nasce così il concetto di morte moderna, ovvero di una morte
sopraggiunta per esaurimento naturale in seguito a svariate cure mediche. Ora è il medico a scegliere il momento in cui
la falce della morte deve calare sul capo del malcapitato paziente.
La morte diventa di conseguenza un diritto civile e l’intervento
terapeutico un dovere.
“Nella sua forma più estrema, la “morte naturale” oggi è quel punto in cui l’organismo umano rifiuta ogni altra applicazione terapeutica. La medicalizzazione della società ha posto fine all’epoca della morte naturale. [...] La morte tecnica ha prevalso su morire”[Ivan Illich - Nemesi medica]
In sostanza, oggigiorno consideriamo il morire “di vecchiaia”
come la forma più onorevole di decesso, nonché l’unica realmente accettabile:
in caso contrario si parla di “tragedia” o “scomparsa prematura”.
È strano pensare che appena all’epoca in cui Verga scriveva “I
Malavoglia” morire in ospedale era considerato disonorevole al pari di morire
in prigione, mentre morire in un duello era una forma molto più cavalleresca ed
accettabile.
All’interno di una società consumistica come la nostra, la
morte non è più vista come “ultima tappa”, compimento della vita, ma sovente
confusa come un termine ultimo, un ultimatum entro il quale si devono
realizzare più cose possibili, accumulando quanti più beni riusciamo, quasi che
l’esistenza umana si riduca ad una “gara”.
Questa concezione moderna va sonoramente a cozzare contro
le religioni da una parte e le correnti spirituali e la filosofia dall’altra.
La maggior parte delle religioni tende a vedere la morte come una sorta di nuovo
inizio, dopo il quale l’anima va incontro alla vita eterna, raggiungibile in
seguito ad una condotta di vita adeguata ai precetti religiosi, che ci
consentiranno appunto un comodo seggio in paradiso.
Le correnti spirituali hanno anch’esse una visione poco
materialistica dell’esistenza, vista come costante sfida durante la quale l’uomo
impara a distaccarsi dai beni terreni e a raggiungere la pace interiore e la
felicità mediante l’autocoscienza e la piena appercezione. La morte diventa una sorta di limite, oltre il
quale non si può più conoscere altro.
La morte è da sempre considerata come qualcosa che, seppur
in minima parte, instilla dentro di noi un lieve senso di paura, come se fosse
da fuggire in tutti i modi o quantomeno rimandarla il più possibile; allo
stesso tempo genera come un moto di curiosità verso l’ignoto, l’inconoscibile.
Proprio per questo non si possono definire giusti o sbagliati
gli innumerevoli modi con cui l’uomo l’ha affrontata durante i secoli, poichè ogni contesto storico è diverso dal precedente e dal successivo.
A volte però ci fermiamo a riflettere, durante uno dei pochi spazi vuoti all'interno delle nostre impegnatissime giornate, sulla morte e cosa ci sia effettivamente dopo: saremo comodamente seduti ad una tavola lunghissima a mangiare pane e vino insieme ad un signore barbuto e a suo figlio? Oppure ci attenderanno 72 vergini pronte a soddisfare ogni nostro desiderio se avremo fatto saltare per aria, in vita, un paio di migliaia di cristiani? O ancora, forse avremo la fortuna di trovarci nell'inferno di PSV, dove galleggeremo nei fiumi di birra?
Nessuno è mai tornato indietro per raccontarci cosa ci sia veramente.
Citerei anche l'idea foscoliana della morte: un nulla eterno, la "fatal quiete", che viene vista anche come possibilità di fama
RispondiElimina"Morte sol mi darà fama e riposo" , dove per fama intendo non solo la gloria eterna ma il ricordo del defunto nel pensiero dei propri cari.