10/15/2016

Thanatos




Cos'è la morte?





Con questo termine usiamo indicare lo stato in cui versa un individuo, prima vivente, che ha cessato di esistere: dopo la morte rimane immoto, non potrà più respirare né muoversi né fare qualsiasi altra attività che aveva precedentemente svolto durante la vita. 

"La morte è l'obliterazione dell'Io cosciente che si infutura nell'archetipo prototipo dell'antropomorfismo universale"

Durante il corso della storia, con la conseguente evoluzione dell’uomo è inevitabilmente mutata anche la concezione di “morte” dell’individuo, ma soprattutto il modo attraverso il quale l’essere umano si è rapportato ad essa.

Dal primordiale concetto di morte intesa come “passaggio” dal mondo dei viventi a quello dei defunti, caratterizzata da una profonda ritualità e solennità, si giunge al concetto di morte “moderna” tipica dell’epoca medioevale.

Con il progressivo aumento della popolazione e il conseguente sviluppo delle città, vengono ad instaurarsi nel quotidiano una molteplicità di fattori che portano la morte a diventare un fatto quasi scontato: conflitti, malattie, povertà e quasi totale inesistenza di arti mediche funzionali pongono costantemente l’individuo a contatto con la morte, incombendo su di lui come una spada di Damocle. Non sono rare infatti le rappresentazioni artistiche (la danza dei morti) di questo profondo terrore che l’uomo medievale nutriva verso di essa, così come verso la presunta apocalisse dell’anno mille, proprio a causa di questa consapevolezza di poter cessare di esistere da un momento all’altro.

Con la fine del XV secolo, la morte viene dipinta come una forza della natura, un momento istantaneo nel quale l’uomo esaurisce il suo tempo terreno ed incontra l’eternità. Ed è proprio il tempo il particolare fondamentale: l’uomo ha un periodo nel quale può vivere e compiere delle azioni; al termine di questo egli muore e a seconda delle azioni compiute la sua anima verrà portata all’inferno, sottoposta ad uno spaventoso castigo, o in paradiso. La fine del tempo coincide con la fine della vita terrena: la morte diventa non più la meta, bensì la fine della vita. Vengono scritti molti testi, primo fra tutti L’ars Moriendi, i quali, così come il Galateo insegnava a comportarsi educatamente e civilmente, sono vere e proprie guide per morire bene ed essere ricordati per questa singolare dignità e signorilità nel momento della dipartita.

È però nel  XVI che si verifica una svolta radicale: con la nascita della figura del medico di città, la gente ricca comincerà ad impiegare il proprio denaro per tenere lontana il più possibile una morte che, senza cure opportune, sarebbe sopraggiunta inesorabile.
Nasce così il concetto di morte moderna, ovvero di una morte sopraggiunta per esaurimento naturale in seguito a svariate cure mediche. Ora è il medico a scegliere il momento in cui la falce della morte deve calare sul capo del malcapitato paziente.
La morte diventa di conseguenza un diritto civile e l’intervento terapeutico un dovere.

“Nella sua forma più estrema, la “morte naturale” oggi è quel punto in cui l’organismo umano rifiuta ogni altra applicazione terapeutica. La medicalizzazione della società ha posto fine all’epoca della morte naturale. [...]  La morte tecnica ha prevalso su morire” 
[Ivan Illich - Nemesi medica] 

In sostanza, oggigiorno consideriamo il morire “di vecchiaia” come la forma più onorevole di decesso, nonché l’unica realmente accettabile: in caso contrario si parla di “tragedia” o “scomparsa prematura”.
È strano pensare che appena all’epoca in cui Verga scriveva “I Malavoglia” morire in ospedale era considerato disonorevole al pari di morire in prigione, mentre morire in un duello era una forma molto più cavalleresca ed accettabile.

All’interno di una società consumistica come la nostra, la morte non è più vista come “ultima tappa”, compimento della vita, ma sovente confusa come un termine ultimo, un ultimatum entro il quale si devono realizzare più cose possibili, accumulando quanti più beni riusciamo, quasi che l’esistenza umana si riduca ad una “gara”.

Questa concezione moderna va sonoramente a cozzare contro le religioni da una parte e le correnti spirituali e la filosofia dall’altra.
La maggior parte delle religioni tende a vedere la morte come una sorta di nuovo inizio, dopo il quale l’anima va incontro alla vita eterna, raggiungibile in seguito ad una condotta di vita adeguata ai precetti religiosi, che ci consentiranno appunto un comodo seggio in paradiso.
Le correnti spirituali hanno anch’esse una visione poco materialistica dell’esistenza, vista come costante sfida durante la quale l’uomo impara a distaccarsi dai beni terreni e a raggiungere la pace interiore e la felicità mediante l’autocoscienza e la piena appercezione. La morte diventa una sorta di limite, oltre il quale non si può più conoscere altro.

La morte è da sempre considerata come qualcosa che, seppur in minima parte, instilla dentro di noi un lieve senso di paura, come se fosse da fuggire in tutti i modi o quantomeno rimandarla il più possibile; allo stesso tempo genera come un moto di curiosità verso l’ignoto, l’inconoscibile.
Proprio per questo non si possono definire giusti o sbagliati gli innumerevoli modi con cui l’uomo l’ha affrontata durante i secoli, poichè ogni contesto storico è diverso dal precedente e dal successivo. 

A volte però ci fermiamo a riflettere, durante uno dei pochi spazi vuoti all'interno delle nostre impegnatissime giornate, sulla morte e cosa ci sia effettivamente dopo: saremo comodamente seduti ad una tavola lunghissima a mangiare pane e vino insieme ad un signore barbuto e a suo figlio? Oppure ci attenderanno 72 vergini pronte a soddisfare ogni nostro desiderio se avremo fatto saltare per aria, in vita, un paio di migliaia di cristiani? O ancora, forse avremo la fortuna di trovarci nell'inferno di PSV, dove galleggeremo nei fiumi di birra? 

Nessuno è mai tornato indietro per raccontarci cosa ci sia veramente.

1 commento:

  1. Citerei anche l'idea foscoliana della morte: un nulla eterno, la "fatal quiete", che viene vista anche come possibilità di fama
    "Morte sol mi darà fama e riposo" , dove per fama intendo non solo la gloria eterna ma il ricordo del defunto nel pensiero dei propri cari.

    RispondiElimina